Una riflessione sul make-up durante l’allenamento e sulla libertà individuale, oltre i giudizi
di Elena Quadrio | Pubblicato: 18/06/2025
Per molte donne, il momento che precede l’ingresso in palestra è segnato da un dubbio tanto semplice quanto emblematico: è opportuno truccarsi prima di allenarsi? Una domanda che, più che legata a norme di comportamento, rimanda a dinamiche culturali, sociali e identitarie.
Per alcune persone il trucco rappresenta una scelta estetica, per altre un gesto funzionale, per altre ancora un’espressione di personalità, stile o autodeterminazione. Nonostante ciò, truccarsi per svolgere attività fisica è spesso visto con sospetto, se non apertamente criticato. A livello dermatologico, è vero che l’uso di make-up durante l’attività sportiva è generalmente sconsigliato per via della sudorazione, che può occludere i pori. Ma ridurre la questione esclusivamente a una prospettiva medico-estetica non basta.
Un gesto criticato ma mai neutro
Nel dibattito pubblico e sui social, capita di leggere commenti secondo cui truccarsi per andare in palestra sarebbe superficiale o segno di vanità. Talvolta, queste critiche assumono toni denigratori, accusando chi si trucca di essere interessata più all’apparenza che all’allenamento stesso. Tuttavia, tali giudizi ignorano le motivazioni personali — spesso complesse — che spingono molte donne a compiere questa scelta.
La rugbista olimpica Ilona Maher ha dichiarato:
“Il fatto di truccarsi non sminuisce le capacità atletiche. Se vuoi truccarti completamente per andare a placcare la gente, tanto di cappello.”
Durante i Giochi di Parigi 2024, Maher e le sue compagne di squadra hanno condiviso momenti di trucco su TikTok, in collaborazione con brand come Fenty Beauty, trasformando un gesto quotidiano in un simbolo di empowerment.
Estetica, autodifesa e rappresentazione
Truccarsi, in alcuni casi, non è un atto di vanità ma di autodifesa. Come ha raccontato la giornalista Carol Lee in un articolo su The Cut, il make-up può diventare una barriera psicologica necessaria in ambienti dove l’aspetto fisico è costantemente esposto al giudizio:
“Prima che l’acne cistica migliorasse, non riuscivo ad allenarmi senza trucco. Ero troppo in imbarazzo. Lo stato della mia pelle era così debilitante che non riuscivo a guardarmi allo specchio senza sentirmi a disagio.”
Le palestre, infatti, non sono sempre ambienti inclusivi. Spesso rappresentano spazi in cui si riproducono dinamiche di razzismo, grassofobia e standard estetici eurocentrici. In questo contesto, il trucco può offrire a chi lo indossa una sensazione di controllo o sicurezza.
La visibilità delle atlete e il diritto di esprimersi
Negli ultimi anni, molte atlete hanno utilizzato l’estetica per reclamare spazio e visibilità in ambienti sportivi ancora fortemente dominati da logiche maschili. Dal rossetto rosso di Maher ai fiocchi verde pastello di Naomi Osaka, passando per i completi firmati da Nike e Ambush, il confine tra performance sportiva e affermazione individuale si è fatto sempre più sottile.
La stessa Maher è spesso bersaglio di body-shaming:
“Ricevo commenti in cui mi chiamano uomo o mi definiscono troppo mascolina. So che chi li scrive è spesso spinto da insicurezze personali, ma so anche che questi attacchi sono rivolti a molte altre donne.”
In risposta, in un video virale con oltre 5 milioni di visualizzazioni pubblicato prima della cerimonia di apertura di Parigi 2024, ha ribadito:
“Tutti i tipi di corpo sono validi. Dallo sprinter al lanciatore di peso, dalla ginnasta al rugbista. Rivedete voi stessi in questi corpi: anche voi potete farcela.”
Truccarsi per andare in palestra non è né giusto né sbagliato: è una scelta personale, che va compresa nel contesto dell’autonomia, del rispetto e dell’autodeterminazione. In un mondo che impone costantemente standard estetici contraddittori, ogni gesto che riafferma il diritto a sentirsi bene con sé stessi, anche attraverso il trucco, è un gesto degno di rispetto. Non si tratta di estetica, ma di libertà.